jueves, 20 de abril de 2017

Cristina Campo




UNA ROSA

 Acusar de frivolidad a los fabulistas franceses porque adornaron con alguna pluma de avestruz sus hadas, significa “poseer la vista, no la percepción”. Justo lo que poseía, en cambio, una Madame d’Aulnoy, que supo recoger de la voz del pueblo los misterios más delicados y lo hizo sin darse cuenta, casi en sueños, como se recoge un trébol de cuatro hojas de un prado. (No así los hermanos Grimm que explorando metódicamente, hoja por hoja, el folclore, encontraron, sí, muchos incluso, pero entre una siega sofocante de hierbas sin magia).
  Madame d’Aulnoy compuso fábulas sublimes, El ramo de oro o La gata blanca, por ejemplo, de las cuales parece imposible alcanzar la cima o el fondo. Pero sería suficiente con el relato más familiar de Perrault (o de ese misterioso hijo suyo tempranamente desaparecido), quiero decir su relato más leído: Cenicienta. Dejando por ahora los símbolos, ya tan tristemente desflorados, de las malvadas hermanas y del zapatito de cristal (el verdadero zapatito, exquisitamente, era de piel de ardilla), como revelaciones en Cenicienta. Relámpagos que sólo en narradores semejantes, dulcemente distraídos como todos los videntes, podía llegar a entender.
  He ahí el preludio de la gran crisis, el baile en la corte: “Así como estaba, engalanada, salió en la carroza; pero la madrina le recomendó sobre toda otra cosa no pasarse de la medianoche, advirtiéndole che si se quedaba más tiempo en el baile su carroza volvería a ser una calabaza, y topos sus caballos, y lagartos sus lacayos, y que su bello vestido recuperaría su antigua forma”, el misterio del tiempo y la ley del milagro son indicados en estas pocas palabras con ligereza extrema y sin embargo con qué decisión. ¿A qué puede conducir la infracción de un límite si no al regreso trágico en el tiempo, al despertar, a la mañana sobre cenizas frías? Cenicienta roza, en la tercera y más gloriosa noche de baile, ese precipicio: y para evitarlo, huyendo enloquecida, no evita perder su zapatito de piel de ardilla, ni renunciar a la orla del gratuito, estático presente, del cuál una potencia la ha investido. Pero he aquí que será el mismo filo aquel, el zapatito de piel de ardilla, lo que volverá a conducirla al príncipe. Su pérdida voluntaria se volverá ganancia.
  “Quien arroja su vida la salva”. Madame Le Prince de Beaumont, en Belinda y el Monstruo, conduce el mismo tema hacia una zona aún más delicada y oculta. Como toda fábula perfecta, incluso esta, nos pone aparte  de la amorosa reeducación  de un alma –de una atención-  a fin de que la vista se eleve a percepción.  Percibir es reconocer solamente aquello que tiene valor, sólo aquello que existe verdaderamente. ¿Y qué otra cosa existe verdaderamente en este mundo sino aquello  que no es de este mundo? La amistad del Monstruo por Belinda es una larga, tierna, crudelísima lucha contra el terror, la superstición, el juicio según la carne, la vana nostalgia. No distinto de la demora de Cenicienta en el baile es el regreso de Belinda a casa, que por poco no le cuesta la vida al Monstruo.  Y, para una y otra muchacha, el riesgo de una recaída en el círculo mágico del pasado, que puede devastar, como  un hielo fuera de estación, aquello que ha esperado tanto tiempo para florecer: el presente. Es la ordalía de Belinda pero Belinda no lo sabe. De hecho, esencialmente, es la ordalía del Monstruo.
  ¿Cuándo es que el Monstruo se transforma en Príncipe? Cuando el portento se vuelve superfluo, cuando la metamorfosis se ha completado insensiblemente en Belinda: lavándola de toda añoranza adolescente, de toda herrumbre de fantasía, no dejando de ella sino la atenta alma desnuda (“no me parece más un Monstruo, y aún si lo fuera me casaría lo mismo porque es perfectamente bueno y no podría amar a otro que no fuera él”).
La metamorfosis del Monstruo es en realidad la de Belinda y es por tanto razonable que en este punto aún el Monstruo devenga Príncipe. Razonable por innecesario. Ahora que ya no hay dos ojos de carne para ver, la hermosura del Príncipe es pura añadidura, es la alegría sobreabundante prometida a quien buscó primero el reino de los cielos. “Al que tiene le será dado” asegura el versículo que tanto intriga a los fieles de la letra.
Para conducir a Belinda a tal triunfo, el Monstruo rozó  la desesperación y la muerte, trabajó con la terquedad de la locura perfecta, noche tras noche, apareciendo ante la muchacha recluida, resignada e impávida a la hora ceremonial: la hora de la cena, de la música. Encerrado en la égida del horror y del ridículo (“además de bruto desdichadamente soy incluso estúpido”) se arriesgó al odio y la execración de aquella a la que quería: descendió a los Infiernos y tuvo que hacerlo.

  No menos –y no menos locamente- hace Dios por nosotros: noche tras noche, día tras día. No conviene olvidar además que fue Belinda quién suscitó a su Príncipe, de lejos y sin saberlo. Fue cuando pidió a su padre que alcanzaba el estribo, en lugar de una joya o un vestido aparatoso, aquel loco regalo suyo: “una rosa, sólo una rosa”, en pleno invierno.

(de Gli imperdonabili, Adelphi, 1987)

Versión de G.M.


Original Italiano:

Una Rosa

  Accusare di frivolezza i favolisti francesi perché adornarono di qualche piuma di struzzo le loro fate, significa « possedere la vista, non la percezione ». Proprio quella possedeva invece una Madame d'Aulnoy, che seppe cogliere nelle voci del popolo i misteri più delicati e lo faceva quasi senza avvedersene, quasi in sogno, come si coglie un quadrifoglio in un prato. (Non così i fratelli Grimm che esplorando metodicamente, foglia per foglia, il folklore, ne trovarono, sì, molti anche loro, ma tra una messe soffocante di erbe senza magia).
  Madame d'Aulnoy compose fiabe sublimi, Il ramo d'oro o La gatta bianca, per esempio, delle quali sembra impossibile toccare il fondo o la cima. Ma basterebbe il racconto più familiare di Perrault (o di quel suo misterioso figlio presto sparito), intendo dire il suo racconto più letto: Cenerentola. Lasciando per ora i simboli, già così tristemente deflorati, delle cattive sorelle e dello scarpino di vetro (ma il vero scarpino, squisitamente, era di vaio), quali rivelazioni in Cenerentola. Lampi che soltanto a simili narratori, dolcemente svagati come tutti i veggenti, poteva capitare di cogliere.
   Ecco il preludio della grande crisi, il ballo a corte: « Come fu così agghindata, ella salì in carrozza; ma la madrina le raccomandò sopra ogni cosa di non passar mezzanotte, avvertendola che se restasse più lungamente al ballo la sua carrozza,ridiverrebbe zucca, i suoi cavalli sorci, i lacchè lucertole, e che le sue belle vesti riprenderebbero l'antica forma », Il mistero del tempo e la legge del miracolo sono indicati in queste poche parole con leggerezza estrema e tuttavia con quale risolutezza. A che può condurre l'infrazione di un limite se non al regresso tragico nel tempo, al risveglio, il mattino, sulle ceneri fredde? Cenerentola sfiora, nella terza e più gloriosa notte di ballo, quel precipizio: e per schivarlo, fuggendo all'impazzata, non si cura di perdere il suo scarpino di vaio, di rinunciare a un lembo del gratuito, estatico presente del quale una potenza l'ha rivestita. Ma ecco: sarà proprio quel filo, lo scarpino di vaio, a ricondurla al principe. La sua perdita volontaria diverrà il suo guadagno
  « Chi getterà la sua vita la salverà ». Madame Le Prince de Beaumont, in Belinda e il Mostro, conduce lo stesso tema sino a zone ancor più delicate ed occulte. Come ogni fiaba perfetta, anche questa ci mette a parte dell'amorosa rieducazione di un'anima — di una attenzione — affinché dalla vista si sollevi alla percezione. Percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo? L'amicizia del Mostro per Belinda è una lunga, una tenera, una crudelissima lotta contro il terrore, la superstizione, il giudizio secondo la carne, le vane nostalgie. Non diverso dall'indugiare di Cenerentola al ballo è il ritorno a casa di Belinda, che per poco non costerà la vita al Mostro. E, per l'una e l'altra fanciulla, il rischio di una ricaduta nel cerchio mágico del passato che può devastare, come un gelo fuori stagione, ciò che ha così lungamente atteso di sbocciare: il presente. È l'ordalia di Belinda ma Belinda non lo sa. Infatti, essenzialmente, è l'ordalia del Mostro.
Quand'è che il Mostro si trasforma in Principe? Quando il portento è divenuto superfluo, quando la metamorfosi s'è già compiuta insensibilmente in Belinda: lavandola da ogni rimpianto adolescente, da ogni ruggine di fantasia, non lasciando di lei se non l'attenta anima nuda (« non mi sembra più un Mostro e se anche lo fosse lo sposerei lo stesso perché è perfettamente buono e io non potrei amare che lui »).
  La metamorfosi del Mostro è in realtà quella di Belinda ed è soltanto ragionevole che a questo punto anche il Mostro diventi Principe. Ragionevole perché non più necessario. Ora che non sono più due occhi di carne a vedere, la leggiadria del Principe è puro soprammercato, è la gioia sovrabbondante promessa a chi ricercò per prima cosa il regno dei cieli. « A chi ha sarà dato » assicura il versetto che tanto intriga i fedeli della lettera.
  Per condurre a tale trionfo Belinda, il Mostro sfiorò la morte e la disperazione, lavorò con la pervicacia della perfetta follia notte dopo notte, apparendo alla fanciulla reclusa, rassegnata ed impavida nell'ora cerimoniale: l'ora della cena, della musica. Chiuso nell'egida dell'orrore e del ridicolo (« oltre che brutto purtroppo sono anche stupido ») rischiò l'odio e l'esecrazione di quella che gli era cara: discese agli Inferi e ve la fece discendere.
  Non meno — e non meno follemente — fa Dio per noi: notte dopo notte, giorno dopo giorno. Non conviene dimenticare però che fu Belinda a suscitare il suo Principe, di lontano e senza saperlo. Fu quando chiese a suo padre che infilava la staffa, invece di un gioiello o di una veste sfarzosa, quel suo folle regalo: « una rosa, solo una rosa », in pieno inverno.


Algunos datos biográficos:

Cristina Campo, seudónimo  de Vittoria Guerrini (Bolonia, 29 de abril de 1923 – Roma, 10 de enero de 1977), fue una escritora, poeta y traductora italiana.
Nació en Bolonia, única hija de Guido Guerrini, compositor, oriundo de Faenza, y de Emilia Putti, quien fuera nieta de Enrico Panzacchi (poeta, crítico de arte y crítico musical), y hermana de Vittorio (notable cirujano ortopédico). Por una malformación cardíaca congénita, Cristina siempre padeció una salud precaria, creció aislada de sus compañeros y no pudo seguir estudios escolares de manera regular.
Hasta 1925 la familia Guerrini vivió en la residencia del profesor Putti, en el parque del Hospital Rizzoli de Bolonia. Más tarde la familia se mudó a Parma, y en 1928 a Florencia, donde Guido Guerrini fue convocado para dirigir el conservatorio Cherubini. El ambiente cultural florentino fue determinante para la formación de Cristina Campo, a partir de su amistad con el germanista y traductor Leone Traverso, apodado cariñosamente "Bul" por Cristina, y con quien tuvo una relación sentimental (la correspondencia entre ambos fue publicada por la editorial Adelphi con el título Caro Bul. Lettere a Leone Traverso 1953-1967). Fueron importantes sus encuentros con Mario Luzi y Gianfranco Draghi, que le hicieron conocer el pensamiento de Simone Weil, Gabriella Bemporad y Margherita Pieracci Harwell, la especialista que curaría la publicación de las obras póstumas de Cristina Campo.
Su naturaleza solitaria la llevó a alejarse de elogios y apreciaciones (prefería firmar con nombres ficticios los pocos trabajos publicados en vida), demostrando ser cada vez más indiferente a las estrategias y necesidades del mercado literario. Le gustaba decir de sí misma: "escribió poco, y le hubiera encantado haber escrito menos". Su estilo personal, que se repite en los diferentes géneros literarios que practicaba, se caracteriza por una fuerte tensión para hacer coincidir la palabra con su significado más profundo, evitando todo lo que consideraba obvio o superfluo.
Cristina Campo fue una excelente traductora, especialmente de autores de habla inglesa, como por ejemplo Katherine Mansfield, Virginia Woolf, John Donne y William Carlos Williams. No concebía la traducción como simple reproducción del sentido, sino como un renacimiento, en su propio idioma, de la espiritualidad del autor. A lo largo de su vida se mantuvo fiel a una preferencia especial por Hugo von Hofmannsthal y Simone Weil, de quienes tradujo la tragedia Venezia salva y el ensayo Iliade Poema della forza.
A principios de los años cincuenta trabajó en la recopilación de una antología de escritores, Il Libro delle ottanta poetesse, concebido como "una colección nunca antes realizada de las páginas más puras escrita por la mano femenina a través de los tiempos". La antología, en la que Cristina Campo trabajó mucho, involucrando en las traducciones a varios amigos, no ha sido aún publicada.
En 1955 se trasladó a Roma, donde su padre fue nombrado director del Conservatorio de Santa Cecilia y el Colegio de Música. En esta ciudad hizo nuevos amigos, como Margherita Dalmati (seudónimo de Mary-Nike Zoroghiannide), Roberto Bazlen, María Zambrano. El Dr. Ernst Bernhard, el psicoanalista alemán que introdujo a Carl Jung en Italia, la curó de una persistente agorafobia. En 1958 sucede un encuentro fundamental para ella, con el estudioso y escritor Elémire Zolla, con quien vivió durante mucho tiempo. En los últimos años de vida tuvo un intenso intercambio de correspondencia con el filósofo Andrea Emo, que como vivía aislado su obra sólo recientemente ha sido descubierta y publicada póstumamente.
En 1956 la editorial Vanni Scheiwiller de Milán publicó su primer libro, el poemario Passo d'addio. En 1962 Vallecchi publicó el volumen de ensayos Fiaba e mistero, en parte, se fusionó en el próximo libro, Il flauto e il tappeto, publicado en 1971 por Rusconi.
La última década de su vida estuvo marginada de la escena cultural y profundamente interesada en lo sagrado y la espiritualidad. Así Elémire Zolla recuerda aquellos años:
Su concepción del cristianismo fue ortodoxa y se opuso a la ola de reformas litúrgicas posteriores al Vaticano II. Cristina Campo estaba entre los que fundaron la primera asociación de tradicionalistas católicos, La Voz . También fue la inspiración de la Intervención de Ottaviani, firmado por los cardenales Alfredo Ottaviani y Antonio Bacci, el denominado "Intervento Ottaviani" examen crítico de estas reformas, que tradujo del francés al italiano3 . Su amor por la liturgia la acercó primero a la abadía benedictina de Sant'Anselmo sull'Aventino en Roma, en la que todavía cantan gregoriano, y más tarde al Colegio Russicum. En su forma de entender la espiritualidad cristiana veía en el rito bizantino una mayor fidelidad a los principios del cristianismo.
En la revista Conoscenza religiosa, dirigida por Elémire Zolla, se publicaron los últimos escritos de Cristina Campo, entre los que cabe mencionar el ensayo Sensi soprannaturali y los poemas de "poesie sacre"  inspirado en la liturgia bizantina.
Cristina Campo murió en Roma el 10 de enero 1977, a los 53 años.

Obra:

Traducciones:
Bengt von Torne, Conversazioni con Sibelius, Florencia: Monsalvato (1943), Katherine Mansfield, Una tazza di tè e altri racconti, Torino: Frassinelli (1944), Eduard Mörike, Poesie, Milán: Cederna (1948), William Carlos Williams, Il fiore è il nostro segno, Milán: All'insegna del pesce d'oro (1958); luego en Poesie, a cargo de Cristina Campo y Vittorio Sereni, Torino: Einaudi (1961), Simone Weil, Venezia salva, Brescia: Morcelliana (1963); luego Milán: Adelphi (1987), John Donne, Poesie amorose - Poesie teologiche, Torino: Einaudi (1973), Simone Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, (junto a  Margherita Harwell Pieracci) Milán: Rusconi (1974), L'urgenza della luce. Cristina Campo traduce Christine Koschel, a cargo de Amedeo Anelli, Florencia: Le lettere (2004)

Poesía, ensayos y prosas varias:
Passo d'addio, Milán: Scheiwiller  (1956), Fiaba e mistero e altre note, Florencia: Vallecchi  (1962), Introducción a Storia della città di rame, trad. Alessandro Spina, Milán: All'insegna del pesce d'oro, (1963) (la 556ª novella delle Las mil y una noches), Introducción a Chögyam Trungpa, Nato in Tibet, trad. Donatella Tippet Andalo, Torino: Borla (1970),  Il flauto e il tappeto, Milán: Rusconi (1971), Introducción a Abraham Joshua Heschel, L'uomo non e solo: una filosofia della religione, trad. Lisa Mortara y Elena Mortara di Veroli, Milán: Rusconi (1971), Introducción a Racconti di un pellegrino russo, trad. Milli Martinelli, Milán: Rusconi (1973), Detti e fatti dei Padri del deserto (a cargo de, con Piero Draghi), Milán: Rusconi  (1975), Gli imperdonabili, Milán: Adelphi ( 1987), La tigre assenza, a cargo de Margherita Pieracci Harwell, Milán, Adelphi (1991), Sotto falso nome, a cargo de Monica Farnetti, Milán: Adelphi (1998 e 2003), Lettere a Mita, a cargo de Margherita Pieracci Harwell, Milán: Adelphi (1999), Omaggio a Cristina Campo (1923-1977), a cargo de Antonio Motta.

Correspondencia:
Lettere a un amico lontano, Milán: Scheiwiller (1998) (1ª ed. 1989), L'infinito nel finito. Cartas a Piero Pòlito, a cargo de Giovanna Fozzer, Pistoia: Via del Vento (1998), Il fiore è il nostro segno, (correspondencia con William Carlos Williams y Vanni Scheiwiller con traducción del poeta estadounidense), Milán: Scheiwiller (2001), Caro Bul. Lettere a Leone Traverso (1953-1967), a cargo de Margherita Pieracci Harwell, Milán: Adelphi (2007), Carteggio (con Alessandro Spina), Brescia: Morcelliana (2007), Se tu fossi qui. Lettere a María Zambrano 1961-1975, a cargo de Maria Pertile, Milán: Archinto (2009), Un ramo già fiorito. Lettere a Remo Fasani, a cargo de Maria Pertile, Venecia: Marsilio (2010), Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino, a cargo de Margherita Pieracci Harwell. Milán: Biblioteca Adelphi (2012), Lettere a Enesto Marchese, Il Giannone (Publicación semestral de cultura y literatura), año XII, n° 23-24, enero-diciembre 2014, p. 33-54, número monográfico titulado Il destino della bellezza.

En castellano la revista Sur publicó en su momento una serie de ensayos hoy reunidos en libro: La nuez de oro y otros ensayos, Ed. Selecciones de Amadeo Mandarino, Bs As, 2006.




No hay comentarios:

Publicar un comentario

Cesare Zavattini

  Quiero enseñarles a los pobres un juego muy hermoso. Suban la escalera con paso de forasteros (esta vez regresen a casa más tarde de lo ac...